sabato 12 novembre 2011

La Brunella definirebbe questo post "decisamente melò"


Perchè amo I miei Stati Uniti.

Non so se sia dappertutto così. Ne dubito. Questo paese è pieno di contraddizioni, e quello che io vedo ed amo, può essere incredibilmente antipatico ad altri. O può essere che abbiano visto gli USA con un altro cuore ed altri occhi. Non lo so: questi sono i miei.
Lasciatemeli amare.

Storia:
C’era una volta un uomo che stava seduto all’ingresso della città. Un giovane si avvicinò e domandò: “Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?”. L’uomo rispose con una domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”. “Egoisti e cattivi – disse il giovane – per questo sono stato contento di andarmene da là”. “Così sono gli abitanti di questa città”, gli rispose l’uomo. Poco dopo un altro giovane si avvicinò all’uomo e gli pose la stessa domanda: “Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?”. L’uomo rispose con le stesse parole: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”. “Erano buoni, generosi, ospitali, onesti – disse il giovane – avevo tanti amici ed ho fatto fatica a lasciarli”. “Anche gli abitanti di questa città sono così”, rispose l’uomo. Intanto un signore aveva sentito le conversazioni. Quando il secondo giovane si allontanò, si rivolse all’uomo, con tono di rimprovero: “Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?”. “Caro mio – rispose l’uomo – ciascuno porta il suo universo nel cuore. Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neppure qui. Al contrario, chi aveva degli amici nell’altra città, troverà anche qui degli amici leali e fedeli. Perché, vedi, le persone sono ciò che noi troviamo in esse”.

Questa storia racconta la verità. Ho faticato tanto a lasciare la mia terra, i miei amici, la vita che conoscevo. Non passa giorno senza che le loro parole risuonino nei miei ricordi.
Ma anche qui c’è tanto da amare.

Spesso, le persone che ti incrociano per strada ti abbagliano con un sorriso. Non le hai mai viste, ma sei sulla loro strada: ti sorridono e ti dicono ciao, perché, per un momento, siete uguali, amici, fratelli. E’ bello, e non manca mai di stupirmi.

Con la stessa naturalezza, ti fanno un complimento: il trucco, un capo d’abbigliamento, la manicure. Notano dettagli, ma non ti fissano.

Ho visto ragazzini, esclusi da una competizione, rimanere ed andarsi a sedere, con i loro costumi da ballo, tra il pubblico, a tifare per quelli che li avevano battuti. L’ho trovato quasi commovente, e molto sportivo.

Amo i miei professori. Amo il fatto che mi trattino come una loro pari, scherzino con me e siano sempre disponibili, ma che non abbandonino mai il loro ruolo di guide e di mentori.

Voglio bene agli studenti di italiano che vengono nel mio laboratorio di scrittura. Sono lusingata dalla loro fiducia nel credere ciecamente che la soluzione che suggerisco sia la migliore. Mi sento onorata nel poter insegnare la mia bella lingua. Mi manca tremendamente: credo che sia la cosa che mi manca in assoluto di più. I miei libri. La musicalità. Le mie virgole sparse come il parmigiano sulla pasta. I periodi lunghi e complessi, le subordinate e le coordinate. Ammiro questi ragazzi così giovani che scelgono di intricarsi nel labirinto che è la lingua italiana.
Ora stanno studiando, con impegno e costanza, Dante. Nello specifico, siamo arrivati alla parata finale del Purgatorio. Lo so, perché correggo io loro temi. Ogni parola mi fa pensare con nostalgia e gratitudine al mio professor Marcigliano.

Amo i colori dello Utah: sono splendidi. Tutto qui è tremendamente ordinato: perfino le foglie cadono nel modo giusto. Prima che l’autunno svanisca, una domenica, voglio andare nel cuore del Provo Canyon, con Ludovico Einaudi nell’iPod e le mie Scritture. Mi sdraio, respiro ed ascolto: il vento, il pianoforte, lo Spirito.

Da quando ho ripreso a studiare, tutto è diventato incredibilmente interessante. Mi sembra che ogni fatto, ogni minimo insignificante dettaglio, meriti il mio tempo, la mia attenzione, il mio studio. Nonostante abbia iniziato solo da tre mesi, sento già la nostalgia che mi assalirà quando finirò tra due anni. Sono proprio ridicola…

Amo la generosità di questa terra: amo la cortesia di chi lavora, che ti chiede sempre come stai e ti rivolge un sorriso.

La mia università è magnifica. Non è un aggettivo a caso, stai attento: lo è davvero. Imponente, ricca di ricordi e storia, prestigiosa e disponibile a darti tutto, dico tutto, quello di cui hai bisogno. Non esiste libro che la biblioteca non possa trovare, prodotto che il negozio non ti possa ordinare, classe che tu non possa frequentare: dal cucito all’archeologia, dal canto all’ingegneria meccanica, dal ballo alla geografia. Naturalmente, vorrei frequentarle tutte (ecco, forse ingegneria no…) e credo che, qualunque cosa farò nella mia vita, vorrò vivere l’età della pensione qui: a studiare.

Mi onora il fatto che la mia tesi potrebbe essere utile allo sviluppo della mia religione nel mio paese.

Amo vivere nella bolla Mormone. Amo avere fratelli e sorelle. Amo andare da Walmart e vedere che vendono quadri del Salvatore. Ogni giorno mi ricorda il giorno del mio battesimo: l’acqua fredda e l’emozione di entrarci. E l’immensa, vibrante, intensa gratitudine di essere riuscita a fare questa scelta.


Io so che sono qui per un motivo. Pur non essendo fatalista, e desiderando prendere le mie decisioni da sola, so che il Signore mi ha guidata qui. E mi sto godendo ogni istante. 

lunedì 17 ottobre 2011

Percezioni e pagliacci


Un paio di settimane fa, durante una lezione, il professore ha menzionato un concetto che mi gira in testa da un po’. La differenza tra concettualizzazione e percezione. Come da titolo, non è difficile capire le loro definizioni: percezione è l’atto del notare, superficialmente, un oggetto o un’azione: è ottobre, sto camminando, vedo un laghetto ed una papera e penso “toh, una papera”. Concettualizzazione è investirci un paio di neuroni: vedo la papera, è ottobre, e penso “toh, una papera. Che carina! Adesso mi avvicino per farle una foto… cacchio sta scappando… l’applicazione foto dell’iPhone ci sta mettendo una vita ad aprirsi… e la luce non è un granchè… ecco, fatta la foto… chissà dove vanno ‘ste papere in inverno, con tutta la neve e il freddo… magari se le cucinano alla Creamery… oppure le surgelano e le rimettono in libertà in primavera…” e si va avanti così, alla Molly Bloom, finchè non ti rendi conto che sei impalata come una scema sulla scala appena sotto il Brimhall Building, dove studi, e che dire “scusi, mi sono fermata a fotografare papere e ad interrogarmi sulla loro sorte” non funziona granchè come scusa per un ritardo.
Il professore ha accennato brevemente al fatto che, da bambini, la differenza tra i due non è particolarmente affinata: le sfumature, l’ironia, i piccoli dettagli si perdono nella valutazione che un bambino fa del mondo. Se un film è in bianco e nero, per il bambino in quell’epoca non esistevano i colori (un mio amico l’ha chiesto personalmente alla mamma) su tutta la faccia della terra. La spiegazione mi ha riportato alla mente le mie vicissitudini con il fantastico film It, per cui sarò eternamente debitrice a Stephen King (avete più di otto anni, quindi per favore cogliete la sfumatura ed il sarcasmo, grazie).
Tutto è cominciato quando, nel mio ottavo anno d’età, It ha fatto la sua comparsa nel palinsesto televisivo serale, quello di una volta, dove i film iniziavano alle 20.30 o alle 20.40. Mi ricordo ancora l’immagine di ‘sto pagliaccio abbarbicato ad un lampione, e mia mamma che passando cambiava canale: essendo la presentazione del film in piena fascia protetta, non c’erano scene spaventose, ma questo pagliaccio aveva un che di sinistro e già non mi piaceva. Fatto sta, che mi sono sentita sollevata la mattina in cui mi sono svegliata sapendo che l’intero film era stato trasmesso la sera prima, e che avrei potuto continuare a guardarmi David Gnomo in santa pace.
Non avevo fatto bene i miei conti. Viveva, nel palazzo dietro al mio, una ragazza di circa sei anni più vecchia di me e delle mie amichette. Giocava sempre con noi, e solo anni dopo mi resi conto che probabilmente la sua vita sociale non era proprio il massimo. Non ci tiranneggiava, almeno non sempre, ma immagino le piacesse avere uno stuolo di bimbette adoranti che avrebbero barattato il fratello minore per la sua cucina della Barbie.
Comunque, questa ragazza, evidentemente psicologa in erba, aveva deciso che il modo migliore per “svezzarci” sarebbe stato quello di farci vedere film dell’orrore: dopodichè nessuna avrebbe più avuto paura di niente ed avremmo potuto vivere una vita piena e ricca di serenità. Avendo io espresso la mia paura per It, ed essendo io una bambina già dotata della migliore delle fortune, l’esperimento sarebbe iniziato con me, la più giovane. Ora, siccome la mia mamma legge questo blog, voglio dire che avevo in parte accettato a mia volta di guardare il film, quindi non andare a cercare una mazza ferrata, grazie. Aggiungo anche però che già ai titoli di testa avevo deciso che era una pessima idea, ma non mi è stato permesso di filarmela, e quindi mi sono goduta una versione condensata delle scene più terrificanti di quel cretino di pagliaccio, che invece di starsene in forma di ragno nelle fogne, deve per forza combinarsi da clown ed andare in giro in una città dove l’evento dell’anno è la fiera del timballo di quaglia gobba e nessuno se lo fila, a parte sei adolescenti sfigatissimi, emarginati per i più disparati motivi. Per il discorso iniziale della percezione/concettualizzazione, nella mia testa di bambina, il dannato pagliaccio era realissimo, frequentava i tubi del mio bagno e non aspettava altro che saltare fuori per farsi un pranzo di Pasqua con le mie cicciottelle carni. Inoltre, non avendo seguito l’intero film secondo uno schema logico, con un inizio ed un termine, nella mia psiche la storia non si era conclusa con la vittoria dei sei sfigati, bensì It era vivo e vegeto e si sfregava le mani guantate sotto la mia doccia. Vi risparmio il dramma, mi basta dirvi che per diverso tempo, oserei dire almeno un tre anni, ogni sera andare a lavarmi era una tragedia, una complicata sequenza di trattative con i miei per cui dovevo essere accompagnata o avere la colonna sonora di Cristina D’Avena (all’epoca non mi rendevo conto che essere divorata da un pagliaccio da incubo sarebbe stato di lunga preferibile rispetto a lasciar entrare nella mia mente pronta all’adolescenza i testi delle canzoni di Cristinona).
La questione si è conclusa a quindici anni, quando un lungimirante morosetto, mi ha spinto a guardare tutto il film mentre mi teneva sollecito la mano, pronto a difendermi da mostri, ragni e clown (il moroso in questione era di svariati centimetri più basso di me, penso che un eventuale clown affamano l’avrebbe abbattuto con una singola alitata, ma a quindici anni sei scema e non ti rendi conto di simili quisquilie).
La storia, a mio eterno disdoro, non si conclude qui.
Era l’inverno dei miei diciannove anni. Per chi conosce la mia città natale, sa che in inverno si blocca un tantino, e che le opzioni di divertimento per chi non possiede un mezzo di trasporto variano da temprare le proprie vie respiratorie facendosi uscire la coca cola dal naso a rincitrullirsi di Soul Calibur. I miei amici, tutti maschi, avevano terminato il solito repertorio di attività spirituali quali dare fuoco alle proprie pernacchie ed evidentemente la Playstation si era suicidata, perché Gianfranco propose “Dai, guardiamo IT”. Vedendo la mia faccia, che evidentemente esprimeva tutta la mia letizia di fronte a tale entusiasmante progetto, mi chiesero se ci fosse qualche problema ed io, forte del mio essere donna adulta, responsabile, con un recentemente acquisito diploma al liceo classico ed un appartamento tutto mio a Trieste, scossi la testa con degnazione, affermando che assolutamente, che problema c’era ed io, paura? Ma va là, quei film là io li guardavo ad otto anni…
Guardiamo il film. Dico, sono quattro ore di film.
Bon, torno a casa, saranno state le tre del mattino, vado in bagno per la solita trafila togli lenti, togli trucco, crema, denti, lava il tutto a velocità fotonica e nel giro di 11, massimo 12 minuti ero a letto. Mi concentro su Babbo Natale, e mi addormento.
E sogno.
Sogno quel disgraziato che viene su dalla vasca da bagno, tutto contento, entra in camera mia, si avvicina e mi scosta le coperte facendole scivolare sul lato destro del letto, ed inizia, con tutta la calma del mondo, a mangiarmi, partendo dai piedi. (Commento simpatico di mio papà del giorno dopo, “arrivato alle ginocchia, sarà già stato a posto”). Nel sogno, io chiaramente esprimo la mia contrarietà allo spuntino con tutta la voce che ho, ma nessuno accorre in mio aiuto. Mi sveglio. Avete presente quando il corpo è talmente teso che i nervi, di solito di una gamba, scattano involontariamente? Beh, mi parte la gamba destra, calcio le coperte e quelle, per una malefica casualità mi scivolano giù sul lato destro del letto. Oh, come ho strillato! Talmente tanto che i miei sono arrivati tutti agitati, mia mamma che, per portarsi avanti, già piangeva per lo spavento. Balbettando sono riuscita a raccontare cosa mi turbava, e mia mamma si è offerta di farmi dormire con lei (evento senza precedenti), mentre papà, sfrattato e incredulo, continuava a ripetere “Giulia, hai una cosa come vent’anni!”.
Evidentemente nel mio processo di concettualizzazione, It resta ancorato alla percezione che ne ho fatto ad otto anni. Stupida percezione… 

giovedì 13 ottobre 2011

Inoltre...

A proposito... TANTI AUGURI AL MIO KIWI!!!

tecnologia e cucina


Non mi capacito del fatto che l’aggiornamento a IOS 5 che ho fatto sul mio iPhone abbia apparentemente cancellato l’applicazione dove avevo amorevolmente salvato le mie ricette. Mi rendo conto, scrivendo, che è parecchio inusuale mettere nella stessa frase termini tecnologici, da “geek”, e questioni donnesche. Ma io sono il mix dei due. Dammi una cucina e due ricette e sono felice. Dammi un divano, un libro, una wii, un computer o l’ultimo modello della casa del fu Jobs, e sono altrettanto felice. Sono due felicità differenti: la prima, fa più Nonna Papera e mi permette di nutrire gli affamati (che non sono quei due giunchi delle mie coinquiline, loro restano fedeli alla loro dieta di gallette di riso e broccoli, o UN singolo cracker spalmato di marmellata… anche io mangio un solo cracker spalmato di marmellata, basta non menzionare di quanti metri sia lo spessore della marmellata!), la seconda mi permette di acquisire nozioni e soddisfazioni.
Basta parlare di me.
Oggi ero nel laboratorio di scrittura di Italiano, dove lavoro come tutor, e mi è capitato di guardare lo scaffale dove sono custoditi (e giammai prestati) film italiani o in lingua italiana. Ho immaginato che, dato lo spessore culturale delle professoresse italiane che insegnano lì, i titoli più ricorrenti sarebbero stati “Amarcord” o “La dolce vita”, seguiti da vari film di altissimo livello culturale. Sbagliato. Subito dopo ogni film possibile con protagonisti “Peppone e Don Camillo”, seguono vari capolavori del genere e si termina col botto: una registrazione su videocassetta della finale Italia-Francia del 2006, la nostra ultima, gloriosa coppa del mondo. Ora, numero uno, voglio sapere chi è il genio che ha inserito quella cassetta tra le opere italiane: undici tizi in braghette corte che, quando cantano l’inno italiano, sembrano undici tizi in braghette corte che fumano la pipa sott’acqua. Numero due, voglio sapere chi, nel 2006, ancora registra su videocassetta. Numero tre, in quale cavolo di mondo il calcio è diventato una rappresentazione dell’Italia? Dico, non lo si poteva lasciare all’Inghilterra con gli Hooligans?! Stavamo tanto bene noi con gli spaghetti ed il mandolino. E ovviamente la mafia. E l’immancabile gesto con le dita raccolte, che noi utilizziamo raramente per chiedere “cosa vuoi”, ma che secondo gli americani noi usiamo quotidianamente per dire qualunque cosa. “Come stai? E a casa tutti bene?” Gesto. “Mi scusi, mi indica l’ubicazione dell’impianto di acque chiare e scure?” Gesto.
Come si fa a fare capire agli americani come stanno le cose in Italia senza offenderli o apparire snob? O peggio ancora, critica?
Il fatto è che io sono una purista: per quanto ami la pizza con il bacon, la salsa barbecue e l’ananas, non posso umanamente definirla “pizza”. Altrettanto vale per le lasagne con la ricotta. O la mozzarella ridotta ad un cubo con cui potresti attentare alla vita del tuo prossimo. O la carbonara con il petto di pollo.
Il fatto è che per loro questo è Italiano, e allora sai cosa ti dico? Va bene! Probabilmente il vero italiano a loro non piacerebbe. E se mai dovessi aprire un’attività nel campo della ristorazione, come praticamente tutti mi hanno prima o poi suggerito, anche io dovrei adattarmi alla domanda vigente e cucinargli il pesto con gli spinaci. Orrore.
Ma amo talmente tanto questo paese, che soprassederei. 

domenica 9 ottobre 2011

Vari perché

Mi sono spesso chiesta perchè la gente scriva blog. Immagino sia un argomento affrontato innumerevoli volte, se ne parla in continuazione, ma ci diamo un gran daffare a proteggere la nostra privacy, il nostro denaro, la nostra casa, i nostri figli, stando bene attenti che nessuno li guardi oltre un certo limite… e poi ne tratteggiamo ogni singolo movimento su una pagina rosa aperta a chiunque. Il bambino ha fatto la cacca verdolina, splat, sul blog.Cambio l’arrangiamento dei fiori sul tavolino del tinello, splat, foto sul blog. Vado in pasticceria ed ordino un muffin, splat, foto sul blog. Del muffin. E di me che lo mangio. Manca solo la radiografia dell’interno dello stomaco. E del chilo che va a posarsi allegramente sul fianco o sul sedere (di quello però la foto non ce la mettono… o forse si, ma non è il tipo di blog che cercherei in rete.) Facebook, lo stesso. Cioè, conosco gente che ha creato il profilo di Facebook del proprio figlio, che non ha ancora tre anni. Mi dici che senso ha? Che vita sociale può avere, un bambino di due anni? Status: oggi la mamma mi ha imboccato tre volte facendo l’aeroplanino, cinque con la barchetta e mi ha centrato la bocca mentre ero distratto solo una volta.  A nonno Nanni piace questo elemento. Tra sedici anni, se ancora esisterà Facebook, voglio vedere se il diciottenne sarà felice di sapere che la mamma ha messo in rete le foto di lui/lei sul vasino. Non so come funzioni con i bimbi di adesso, ma a me da piccola facevano foto per cui potrei essere presa in giro per la prossima decade.
Comunque, tutta questa premessa per dire che non capisco i blogger. Vuoi far sentire la tua voce? Ok. Vuoi spiegare la tua opinione sui diritti dei panda e l’inflazione crescente? Benissimo. Desideri sfogare la tua irritazione per una legge che ritieni anticostituzionale? Passa. Ma mi dici perché io, una qualunque, dovrei essere interessata del fatto che hai tagliato i capelli a tua figlia e che tua figlia ha pianto? Dico, non c’hai nulla da fare? Intrecciare canestri, un corso di calligrafia per corrispondenza, il dado fatto in casa?!
E tu, direte? Che ci frega di leggere quello che scrivi tu?
Ah, ma io faccio ridere. Almeno, così dicono.
Adesso poi sono una qualunque italiana che studia negli Stati Uniti, quindi la mia vita non è noiosa.  O almeno, non lo è per me. Mi diverto un mondo. Osservo una marea di cose nuove, e faccio domande pertinenti la maggior parte delle volte, molto meno sensate altre.
Ieri ho chiesto se il termine “jerk” possa essere applicato anche ad una donna. La mia amica Kelsei mi ha guardato attonita e mi ha detto che non ci aveva mai pensato. Non che questo possa veramente fare la differenza nella mia vita americana, ma tant’è…
Ci sono cinquecento cose che non capisco, o a cui mi devo abituare... ecco una listina. 
- il basilico che trovi nei supermercati qui, giunge al consumatore in tre appetitose varianti: surgelato e mischiato ad altre erbe; mischiato ad olio vegetale in tubetto; oppure mummificato in scatola. Un mio amico ha la piantina: ho deciso di mettermi una forbice in macchina ed andare a saccheggiare il suo orto all'occorrenza. 
- Gli Americani qualche anno fa hanno scatenato un dibattito sull'orientamento sessuale dei Teletubbies. L'ho appreso alla lezione di statistica. Pare lo considerassero un argomento serio. 
- Le pubblicità reclamizzano tre cose: cibo, generalmente grondante burro o avvolto in qualche forma di pane; assicurazioni di qualunque genere; supporto legale nel caso tu o qualcuno a te caro sia stato esposto a qualche impronunciabile elemento tossico ed abbia di conseguenza contratto qualche impronunciabile disturbo.
- Le mie coinquiline si sostentano esclusivamente con: burro d'arachidi, nutella, broccoli, biscotti e bacon. Non tutto insieme, ma l'eventualità non mi stupirebbe. 

Di più prossimamente.