sabato 19 aprile 2014

Pasqua

La mia famiglia non è religiosa. Agnostica, dicono loro. Nel senso che pensano che forse un Dio esiste, ma non è una questione che valga la pena approfondire in questa vita. Ne consegue che nel mio ambiente familiare non si sono mai discussi principi dottrinali, né le qualità di Dio, né la vita di Gesù Cristo. Invece la mia nonna.... e qui il pubblico si aspetta "invece la mia nonna era molto credente e mi ha insegnato tutto quello che so". Sbagliato. La mia nonna Anna, meravigliosa nonna, non è credente. Anche lei, come i miei, non si pone il problema. MA, ogni sera che aveva la possibilità di accompagnarmi a letto, mi dava un bacio sulla fronte e mi diceva "e adesso fatti il segno della croce". Il motivo di questo gesto mi è tuttora ignoto: gliene ho chiesto la ragione, e ancora non riesco ad ottenere una risposta che vada al di là di "mi sembrava una cosa giusta".
Eppure questo piccolo gesto poco a poco è fiorito in piccole timide preghiere, fatte in tono confidenziale, come solo una bambina piccola si può rivolgere ad una divinità: nessuna parola altisonante, nessuna invocazione specifica: solo una conversazione a due, molto semplice, molto intima.
Crescendo, come è solito fare nella cultura italiana, ho frequentato il catechismo. Le mie insegnanti, mi spiace dirlo, erano spesso mamme benintenzionate ma con il complesso della maestra, che spesso di dottrina sapevano poco, ma erano espertissime di metodologia didattica. Ricordo una litigio piuttosto intenso tra una di loro e mia mamma perché non avevo colorato le figurine del libro come compito, e la maestra mi aveva dato una nota: mia mamma la informò che le note le danno le maestre nella scuola pubblica, non le insegnanti di un corso facoltativo.
Ma ebbi ottime insegnanti: ricordo, soprattutto, Suor Monica.
Ci raccontavano, al catechismo, la storia di Gesù: era questa una fiaba, più che una storia. Gesù era il buono della storia: andava in giro senza un apparente lavoro, vestito di bianco e con i capelli al vento e guardando le illustrazioni dei libri sembrava passasse il tempo a sollevare la gente da terra, porgendo loro la mano. Guariva. Guariva tutti, ci dicevano. Si era addirittura messo in mezzo quando degli uomini dispettosi volevano tirare sassi ad una donna. E noi bambine pensavamo tutte a quegli insopportabili Federico e Stefano e Andrea che ci tiravano la ghiaia per farci dispetto. È ovvio che non si può spiegare a dei bambini che i sassi erano pietre e che quella donna avrebbe subìto una morte dolorosa e lentissima, se Gesù non fosse intervenuto. Allo stesso modo, non potevano dirci nel dettaglio quanto crudele ed inumana sia stata la morte fisica di Cristo, crocifisso sul Golgota. La figura nel libro c'era: i puntini sulle mani e sui piedi noi li coloravamo di rosso. Ma non ne traevamo un sentimento realistico: era tutto una favola e, come in una favola, c'era il lieto fine: una casa di roccia bianca, un tondo vicino alla porta, e un Gesù vivo e vestito di bianco, che ne esce sorridente. Tutti felici, giocate dieci minuti fuori prima che torni a prendervi la mamma. E Federico, se ti rimetti a tirare sassi alle bambine, ti tengo qui dentro finché non arrivano i tuoi genitori.
La verità non mi ha mai sfiorato, per anni. Fino ai miei vent'anni questa versione anestetizzata è stato più o meno il riassunto di quello che sapevo su Gesù Cristo. Non ho mai capito il motivo del suo titolo, il Salvatore. Vagamente, nebulosamente, sapevo che aveva salvato anche me, ma l'unica cosa che mi veniva in mente era che mi aveva salvato per interposta persona (Suor Monica) dai sassi che tirava Federico.
Non intendo, in questo blog, dare vita ad una critica verso il catechismo o la Chiesa Cattolica. La colpa di questa ignavia ed ignoranza è mia, che non ho cercato, studiato, approfondito.
Ho iniziato a studiare Cristo quando ho iniziato a frequentare la chiesa Mormone. Qui, avvicinandomi al Nuovo Testamento, ho appreso che cosa sia stato veramente il sacrificio di Gesù, cosa sia la Redenzione.
Ho iniziato a sentire spesso questa parola, Getsemani, foneticamente antipatica, accennata come una specie di parola in codice: "Gesù nel Getsemani" era apparentemente sinonimo di grave ed intenso dolore. E tutto ciò che sapevo era che Gesù aveva pianto nel giardino del Getsemani e mi sembrava giusto: voglio dire, chi non avrebbe pianto, di paura per la morte imminente ed abbondantemente preannunciata, di dolore per il tradimento di un amico fidato, di solitudine e anche forse di frustrazione nel vedere quanto poco l'essere umano fosse migliorato...? Ma Gesù non pianse di paura, né di dolore personale: la sua anima veniva straziata in quel momento infinitamente di più di quanto lo sarebbe stato il suo corpo poche ore dopo. In quelle ore buie, il mio Salvatore provava in un barlume ogni mia paura, soffriva dello stesso senso di colpa che ho provato e proverò io per ogni mio peccato, piangeva e sanguinava per le mie mancanze, in un attimo, quelle di tutta la mia vita. E non solo le mie: quelle di ogni creatura umana che aveva camminato sulla Terra prima di Lui, che viveva come Suo contemporaneo e che sarebbe apparso per millenni dopo di Lui. Gesù Cristo ha sofferto per ogni singolo peccato mai commesso dall'Uomo, dal più atroce al più frivolo. Nessun essere umano avrebbe potuto sopportare quanto Lui ha sopportato, fisicamente e spiritualmente.
Ho letto in un articolo la testimonianza di un medico che in guerra dovette amputare entrambi gli arti ad un soldato senza l'aiuto dell'anestesia: schiacciato dall'ineffabile dolore dell'operazione, dalla pelle del soldato era uscita una singola goccia di sangue. Gesù Cristo, riporta Luca, ha sanguinato da ogni poro della sua pelle (e il corpo umano ha circa tre milioni di miliardi di pori).
Sappiamo che fu crocifisso, e nessuno di noi si sognerebbe di dire che sia stato un momento facile. Nella mia religione, tuttavia, tendiamo a dire che per quanto orribile sia stata la morte fisica del Salvatore, quella Sua sofferenza spirituale sia stata la vera agonia della sua anima. 
E lo è. Ma voglio pensare anche alla Sua agonia fisica. Senza entrare nel dettaglio, sappiamo che gli furono fatti passare nelle caviglie, nei palmi e nei polsi robusti chiodi per crocifiggerlo. I Romani usavano spesso questo brutale metodo di tortura e soppressione: Spartaco e altri 700 schiavi lo subirono, e così molti altri considerati criminali. Se questa solo fosse stata l'agonia di Gesù, molti altri avrebbero potuto dire di averla subita. Ma, innanzitutto, erano rare le crocifissioni: è documentato che nella maggior parte dei casi i condannati erano semplicemente legati alla croce, e le gambe venivano loro spezzate: in tal modo il condannato non riusciva a sostenersi sulle proprie gambe quel tanto da permettere al diaframma di alzarsi e moriva soffocato in pochi minuti. Sappiamo che Gesù non ebbe spezzate le gambe: ogni pietoso respiro fu causa di incredibile strazio sui piedi già martoriati. Quando il mio Salvatore morì, le Scritture dicono che "rese lo Spirito": decise, coscientemente, che non ce la faceva a risollevarsi una volta di più per respirare. Ed era in stato di lucidità totale, poiché rifiutò la pozione narcotizzante che i romani usavano offrire ai condannati come ultimo pietoso atto. Era, in ogni senso, vigile, e decise coscientemente di dare la propria vita.
Lui, Principe del mondo, si lasciò come l'ultimo dei criminali, senza sollevare un dito. Lui, che avrebbe potuto fermare tutto questo con un battito di ciglia. Lui, il mio Salvatore, ha abbracciato la morte e l'ha vinta, per me. Grazie a Lui, io sono redenta: potrò, se faccio la mia parte, essere riunita alla mia mamma che battibecca con le insegnanti di catechismo, al mio babbo modaiolo, alla mia meravigliosa nonna, sarò sempre insieme al mio Sam ed ai miei bambini, e ad ogni amico che ho amato in vita. La mia anima è salva, grazie al Suo sacrificio.
Non ci sono parole per esprimere quello che sento quando penso a Lui: il mio fratello maggiore, il primogenito del mio Padre Celeste, il mio Redentore. Gli voglio tanto, tantissimo bene. Lo voglio abbracciare. Vorrei essergli stata accanto in quei momenti difficili. Non l'ho mai incontrato, ma ho visto ciò che il Suo esempio ha fatto per questo mondo sbilenco. Alcuni direbbero che ha fatto poco, che la cattiveria regna sovrana sulla Terra. Io dico forse. Io dico, che nell'universo della mia vita, Lui ha cambiato tutto.     


  

domenica 13 aprile 2014

Da qualche tempo (leggi, anno) non scrivo e me ne rammarico. Tuttavia cose importanti sono accadute nella mia vita e oggi, domenica pomeriggio, mi ritrovo con qualche minuto a disposizione per chiacchierare.
Esiste una strana e fortunata dicotomia quando sei allo stesso tempo studentessa ed insegnante. Sto finendo il mio master, nel pieno della mia tesi, alle spalle due anni di lezioni e saggi, ed ho anche frequentato qualche classe di italiano (con relativi saggi). Sono anche stata assunta dal dipartimento di italiano per insegnare la classe di composizione avanzata. Ciò ha creato in me questa specie di doppia personalità, che si riassume nel perfetto nome che viene dato agli insegnanti non di ruolo, provvisori, che ancora frequentano l'università: student instructor.
In principio non mi garbava, o meglio, mi confondeva. Ero sì student instructor, ma tutti i miei colleghi, tranne forse un paio, frequentavano la mia classe. In più mi chiamavano professoressa. Pur essendo io laureata, e quindi dottoressa, il titolo perde di ogni valenza negli USA, poiché qui è dottore solo chi ha ottenuto un dottorato, il che ha senso. Insomma, quando la gente ti chiama professoressa la cosa ti dà alla testa per un pochino. Motivo per cui sono grata di essere, allo stesso tempo, studentessa. Perché quel "student" ha creato la perfetta ancora che mi ha tenuta con i piedi saldamente a terra, senza che mi montassi la testa.
Eppure succede. Succede perché chi mette passione nel proprio lavoro spesso risulta in un eccesso di zelo, che può rivelarsi, con il tempo, dannoso. Questo significa che ho avuto, ed a volte ancora ho, reazioni spropositate quando si parla dei miei studenti.
Reazione spropositata uno, è quella di prendere sul personalissimo un compito non consegnato o un suggerimento non eseguito: "Come si permette questo qui di non fare quello che ho detto io???" (leggere con il tono snob e antipatico della gente che usa frasi tipo "ma Lei lo sa chi sono io??") È un affronto. La reazione immediata: distruggere. Rendere inoffensivo. Non sei andato al writing lab a correggere il compito prima di consegnarlo? Bene, come punizione, scrivere alla lavagna 1000 volte la frase "Il writing lab è un'istituzione fondamentale nella struttura del dipartimento di italiano e senza Mariolina saremmo tutti nei guai". Non mi porti il compito in tempo? Come punizione per una settimana presentarsi alla segretaria del dipartimento alle cinque del mattino con un tema nuovo. (La segretaria non è felice, ma questi sono fatti tuoi, fa parte della punizione) Ti becco in castagna che non sai ancora la differenza tra un complemento predicativo ed uno indiretto? Legato per quindici ore consecutive senza pausa pipì ad ascoltare l'audiobook di Tantucci sull'Analisi Logica.
Poi ti blocchi e pensi: mmm, per tre mesi ho studiato le lezioni di etica della comunicazione dieci minuti prima di entrare in classe, pregando sempre di cavarmela. Ho rimandato la consegna del progetto IRB per tutto il semestre estivo perché ero impegnata con l'allora fidanzato. Ho spesso ignorato suggerimenti ed aiuti dai miei insegnanti. Stendiamo un velo pietosissimo sui miei voti di greco, latino e chimica del liceo. Voti bassi perché, dicevo, il prof era cattivo ed io non ero tra i suoi preferiti. Ora so che il prof non era il massimo, ma che se io avessi studiato sarei facilmente diventata una dei preferiti.
Insomma, l'essere studentessa mi ha tenuta salda a ricordare quanti errori ho fatto da studentessa, e cosa più importante di tutte, errori fatti NON per insubordinazione. Nella mia testa, la mia priorità era di riuscire a cavarmela senza troppi danni ma con meno impegno, di certo non ho mai mirato ad innervosire il professore. Anzi: la stima ed il rispetto che ho per molti dei miei insegnanti mi hanno fatta sentire in serio pericolo di deludere le loro aspettative su di me. E loro, da bravi insegnanti, non l'hanno presa sul personale.
La reazione spropositata numero 2 è che non mi aspettavo, nel modo più assoluto, di provare un sentimento così intenso e viscerale nei confronti dei miei allievi. Il primo giorno mi terrorizzano: so che osservano ogni mio movimento ed ascoltano attentamente ogni mia parola, che mi stanno giudicando e che mi sto giocando parecchie delle mie possibilità in quei crucialissimi primi 50 minuti. Ma dopo pochi giorni, iniziano ad aprirsi un pochino. Imparo a vedere come scrivono, quali problemi hanno, quali timidezze li bloccano. Loro iniziano a scherzare e a lasciarmi entrare. Ed io entro. Con tutte le gambe e le braccia. Sempre attenta a non lasciarmi coinvolgere in questioni troppo personali, lascio tuttavia che si sfoghino con me nei diari che faccio loro scrivere come esercizio di composizione. Alcuni mi parlano dei loro appuntamenti, andati bene o male. Altri della loro missione in Italia. Altri di questioni private e familiari. Altri non mi danno molto spago, ma va bene così. Tutti mi permettono di entrare nel loro cuore e nel fantastico mondo della loro immaginazione, ricca, vivida, colorata. E io li amo, con tutto il cuore. Li amo al punto che lasciarli alla fine del semestre è difficile. Al punto che scoprire che un allievo imbroglia mi fa piangere per delle ore, ripercorrendo tutti i passaggi per vedere cosa avrei potuto fare per aiutarlo ed evitare la situzione. E al punto che ho un rispetto reverenziale per i loro saggi finali: li soppeso tra le mani e so di reggere le loro speranze, il lavoro di qualche mese, o a volte di qualche giorno, se non di qualche ora. Tuttavia, li rispetto. Perché anche se scritto in poche ore, in quelle ore il loro cervello e le loro facoltà sono interamente dedicate al saggio, al loro italiano, al mio lavoro, a me. I loro saggi sono il mio onore, anche se scritti male, anche con l'MLA a caso, anche con le preposizioni sparse. Non è facile essere studente, soprattutto se il tuo professore ti tratta da sottoposto, e non da eguale. Ma non è facile trovare il giusto equilibrio nel fare l'insegnante. Non lasciarsi coinvolgere così da diventare parziali, ma lasciarsi coinvolgere quel tanto che basta per voler loro bene. Non giustificare tutto, ma capire le circostanze. Non trattarli da amici, ma nemmeno da nemici. I miei studenti sono il mio lavoro, non l'italiano: quello è ciò che, limitatamente a quello che so, cerco di insegnare loro. Ma ogni semestre mi lascia più ricca, dell'italiano e dell'amore che io, ogni giorno, apprendo da loro.