sabato 19 aprile 2014

Pasqua

La mia famiglia non è religiosa. Agnostica, dicono loro. Nel senso che pensano che forse un Dio esiste, ma non è una questione che valga la pena approfondire in questa vita. Ne consegue che nel mio ambiente familiare non si sono mai discussi principi dottrinali, né le qualità di Dio, né la vita di Gesù Cristo. Invece la mia nonna.... e qui il pubblico si aspetta "invece la mia nonna era molto credente e mi ha insegnato tutto quello che so". Sbagliato. La mia nonna Anna, meravigliosa nonna, non è credente. Anche lei, come i miei, non si pone il problema. MA, ogni sera che aveva la possibilità di accompagnarmi a letto, mi dava un bacio sulla fronte e mi diceva "e adesso fatti il segno della croce". Il motivo di questo gesto mi è tuttora ignoto: gliene ho chiesto la ragione, e ancora non riesco ad ottenere una risposta che vada al di là di "mi sembrava una cosa giusta".
Eppure questo piccolo gesto poco a poco è fiorito in piccole timide preghiere, fatte in tono confidenziale, come solo una bambina piccola si può rivolgere ad una divinità: nessuna parola altisonante, nessuna invocazione specifica: solo una conversazione a due, molto semplice, molto intima.
Crescendo, come è solito fare nella cultura italiana, ho frequentato il catechismo. Le mie insegnanti, mi spiace dirlo, erano spesso mamme benintenzionate ma con il complesso della maestra, che spesso di dottrina sapevano poco, ma erano espertissime di metodologia didattica. Ricordo una litigio piuttosto intenso tra una di loro e mia mamma perché non avevo colorato le figurine del libro come compito, e la maestra mi aveva dato una nota: mia mamma la informò che le note le danno le maestre nella scuola pubblica, non le insegnanti di un corso facoltativo.
Ma ebbi ottime insegnanti: ricordo, soprattutto, Suor Monica.
Ci raccontavano, al catechismo, la storia di Gesù: era questa una fiaba, più che una storia. Gesù era il buono della storia: andava in giro senza un apparente lavoro, vestito di bianco e con i capelli al vento e guardando le illustrazioni dei libri sembrava passasse il tempo a sollevare la gente da terra, porgendo loro la mano. Guariva. Guariva tutti, ci dicevano. Si era addirittura messo in mezzo quando degli uomini dispettosi volevano tirare sassi ad una donna. E noi bambine pensavamo tutte a quegli insopportabili Federico e Stefano e Andrea che ci tiravano la ghiaia per farci dispetto. È ovvio che non si può spiegare a dei bambini che i sassi erano pietre e che quella donna avrebbe subìto una morte dolorosa e lentissima, se Gesù non fosse intervenuto. Allo stesso modo, non potevano dirci nel dettaglio quanto crudele ed inumana sia stata la morte fisica di Cristo, crocifisso sul Golgota. La figura nel libro c'era: i puntini sulle mani e sui piedi noi li coloravamo di rosso. Ma non ne traevamo un sentimento realistico: era tutto una favola e, come in una favola, c'era il lieto fine: una casa di roccia bianca, un tondo vicino alla porta, e un Gesù vivo e vestito di bianco, che ne esce sorridente. Tutti felici, giocate dieci minuti fuori prima che torni a prendervi la mamma. E Federico, se ti rimetti a tirare sassi alle bambine, ti tengo qui dentro finché non arrivano i tuoi genitori.
La verità non mi ha mai sfiorato, per anni. Fino ai miei vent'anni questa versione anestetizzata è stato più o meno il riassunto di quello che sapevo su Gesù Cristo. Non ho mai capito il motivo del suo titolo, il Salvatore. Vagamente, nebulosamente, sapevo che aveva salvato anche me, ma l'unica cosa che mi veniva in mente era che mi aveva salvato per interposta persona (Suor Monica) dai sassi che tirava Federico.
Non intendo, in questo blog, dare vita ad una critica verso il catechismo o la Chiesa Cattolica. La colpa di questa ignavia ed ignoranza è mia, che non ho cercato, studiato, approfondito.
Ho iniziato a studiare Cristo quando ho iniziato a frequentare la chiesa Mormone. Qui, avvicinandomi al Nuovo Testamento, ho appreso che cosa sia stato veramente il sacrificio di Gesù, cosa sia la Redenzione.
Ho iniziato a sentire spesso questa parola, Getsemani, foneticamente antipatica, accennata come una specie di parola in codice: "Gesù nel Getsemani" era apparentemente sinonimo di grave ed intenso dolore. E tutto ciò che sapevo era che Gesù aveva pianto nel giardino del Getsemani e mi sembrava giusto: voglio dire, chi non avrebbe pianto, di paura per la morte imminente ed abbondantemente preannunciata, di dolore per il tradimento di un amico fidato, di solitudine e anche forse di frustrazione nel vedere quanto poco l'essere umano fosse migliorato...? Ma Gesù non pianse di paura, né di dolore personale: la sua anima veniva straziata in quel momento infinitamente di più di quanto lo sarebbe stato il suo corpo poche ore dopo. In quelle ore buie, il mio Salvatore provava in un barlume ogni mia paura, soffriva dello stesso senso di colpa che ho provato e proverò io per ogni mio peccato, piangeva e sanguinava per le mie mancanze, in un attimo, quelle di tutta la mia vita. E non solo le mie: quelle di ogni creatura umana che aveva camminato sulla Terra prima di Lui, che viveva come Suo contemporaneo e che sarebbe apparso per millenni dopo di Lui. Gesù Cristo ha sofferto per ogni singolo peccato mai commesso dall'Uomo, dal più atroce al più frivolo. Nessun essere umano avrebbe potuto sopportare quanto Lui ha sopportato, fisicamente e spiritualmente.
Ho letto in un articolo la testimonianza di un medico che in guerra dovette amputare entrambi gli arti ad un soldato senza l'aiuto dell'anestesia: schiacciato dall'ineffabile dolore dell'operazione, dalla pelle del soldato era uscita una singola goccia di sangue. Gesù Cristo, riporta Luca, ha sanguinato da ogni poro della sua pelle (e il corpo umano ha circa tre milioni di miliardi di pori).
Sappiamo che fu crocifisso, e nessuno di noi si sognerebbe di dire che sia stato un momento facile. Nella mia religione, tuttavia, tendiamo a dire che per quanto orribile sia stata la morte fisica del Salvatore, quella Sua sofferenza spirituale sia stata la vera agonia della sua anima. 
E lo è. Ma voglio pensare anche alla Sua agonia fisica. Senza entrare nel dettaglio, sappiamo che gli furono fatti passare nelle caviglie, nei palmi e nei polsi robusti chiodi per crocifiggerlo. I Romani usavano spesso questo brutale metodo di tortura e soppressione: Spartaco e altri 700 schiavi lo subirono, e così molti altri considerati criminali. Se questa solo fosse stata l'agonia di Gesù, molti altri avrebbero potuto dire di averla subita. Ma, innanzitutto, erano rare le crocifissioni: è documentato che nella maggior parte dei casi i condannati erano semplicemente legati alla croce, e le gambe venivano loro spezzate: in tal modo il condannato non riusciva a sostenersi sulle proprie gambe quel tanto da permettere al diaframma di alzarsi e moriva soffocato in pochi minuti. Sappiamo che Gesù non ebbe spezzate le gambe: ogni pietoso respiro fu causa di incredibile strazio sui piedi già martoriati. Quando il mio Salvatore morì, le Scritture dicono che "rese lo Spirito": decise, coscientemente, che non ce la faceva a risollevarsi una volta di più per respirare. Ed era in stato di lucidità totale, poiché rifiutò la pozione narcotizzante che i romani usavano offrire ai condannati come ultimo pietoso atto. Era, in ogni senso, vigile, e decise coscientemente di dare la propria vita.
Lui, Principe del mondo, si lasciò come l'ultimo dei criminali, senza sollevare un dito. Lui, che avrebbe potuto fermare tutto questo con un battito di ciglia. Lui, il mio Salvatore, ha abbracciato la morte e l'ha vinta, per me. Grazie a Lui, io sono redenta: potrò, se faccio la mia parte, essere riunita alla mia mamma che battibecca con le insegnanti di catechismo, al mio babbo modaiolo, alla mia meravigliosa nonna, sarò sempre insieme al mio Sam ed ai miei bambini, e ad ogni amico che ho amato in vita. La mia anima è salva, grazie al Suo sacrificio.
Non ci sono parole per esprimere quello che sento quando penso a Lui: il mio fratello maggiore, il primogenito del mio Padre Celeste, il mio Redentore. Gli voglio tanto, tantissimo bene. Lo voglio abbracciare. Vorrei essergli stata accanto in quei momenti difficili. Non l'ho mai incontrato, ma ho visto ciò che il Suo esempio ha fatto per questo mondo sbilenco. Alcuni direbbero che ha fatto poco, che la cattiveria regna sovrana sulla Terra. Io dico forse. Io dico, che nell'universo della mia vita, Lui ha cambiato tutto.     


  

domenica 13 aprile 2014

Da qualche tempo (leggi, anno) non scrivo e me ne rammarico. Tuttavia cose importanti sono accadute nella mia vita e oggi, domenica pomeriggio, mi ritrovo con qualche minuto a disposizione per chiacchierare.
Esiste una strana e fortunata dicotomia quando sei allo stesso tempo studentessa ed insegnante. Sto finendo il mio master, nel pieno della mia tesi, alle spalle due anni di lezioni e saggi, ed ho anche frequentato qualche classe di italiano (con relativi saggi). Sono anche stata assunta dal dipartimento di italiano per insegnare la classe di composizione avanzata. Ciò ha creato in me questa specie di doppia personalità, che si riassume nel perfetto nome che viene dato agli insegnanti non di ruolo, provvisori, che ancora frequentano l'università: student instructor.
In principio non mi garbava, o meglio, mi confondeva. Ero sì student instructor, ma tutti i miei colleghi, tranne forse un paio, frequentavano la mia classe. In più mi chiamavano professoressa. Pur essendo io laureata, e quindi dottoressa, il titolo perde di ogni valenza negli USA, poiché qui è dottore solo chi ha ottenuto un dottorato, il che ha senso. Insomma, quando la gente ti chiama professoressa la cosa ti dà alla testa per un pochino. Motivo per cui sono grata di essere, allo stesso tempo, studentessa. Perché quel "student" ha creato la perfetta ancora che mi ha tenuta con i piedi saldamente a terra, senza che mi montassi la testa.
Eppure succede. Succede perché chi mette passione nel proprio lavoro spesso risulta in un eccesso di zelo, che può rivelarsi, con il tempo, dannoso. Questo significa che ho avuto, ed a volte ancora ho, reazioni spropositate quando si parla dei miei studenti.
Reazione spropositata uno, è quella di prendere sul personalissimo un compito non consegnato o un suggerimento non eseguito: "Come si permette questo qui di non fare quello che ho detto io???" (leggere con il tono snob e antipatico della gente che usa frasi tipo "ma Lei lo sa chi sono io??") È un affronto. La reazione immediata: distruggere. Rendere inoffensivo. Non sei andato al writing lab a correggere il compito prima di consegnarlo? Bene, come punizione, scrivere alla lavagna 1000 volte la frase "Il writing lab è un'istituzione fondamentale nella struttura del dipartimento di italiano e senza Mariolina saremmo tutti nei guai". Non mi porti il compito in tempo? Come punizione per una settimana presentarsi alla segretaria del dipartimento alle cinque del mattino con un tema nuovo. (La segretaria non è felice, ma questi sono fatti tuoi, fa parte della punizione) Ti becco in castagna che non sai ancora la differenza tra un complemento predicativo ed uno indiretto? Legato per quindici ore consecutive senza pausa pipì ad ascoltare l'audiobook di Tantucci sull'Analisi Logica.
Poi ti blocchi e pensi: mmm, per tre mesi ho studiato le lezioni di etica della comunicazione dieci minuti prima di entrare in classe, pregando sempre di cavarmela. Ho rimandato la consegna del progetto IRB per tutto il semestre estivo perché ero impegnata con l'allora fidanzato. Ho spesso ignorato suggerimenti ed aiuti dai miei insegnanti. Stendiamo un velo pietosissimo sui miei voti di greco, latino e chimica del liceo. Voti bassi perché, dicevo, il prof era cattivo ed io non ero tra i suoi preferiti. Ora so che il prof non era il massimo, ma che se io avessi studiato sarei facilmente diventata una dei preferiti.
Insomma, l'essere studentessa mi ha tenuta salda a ricordare quanti errori ho fatto da studentessa, e cosa più importante di tutte, errori fatti NON per insubordinazione. Nella mia testa, la mia priorità era di riuscire a cavarmela senza troppi danni ma con meno impegno, di certo non ho mai mirato ad innervosire il professore. Anzi: la stima ed il rispetto che ho per molti dei miei insegnanti mi hanno fatta sentire in serio pericolo di deludere le loro aspettative su di me. E loro, da bravi insegnanti, non l'hanno presa sul personale.
La reazione spropositata numero 2 è che non mi aspettavo, nel modo più assoluto, di provare un sentimento così intenso e viscerale nei confronti dei miei allievi. Il primo giorno mi terrorizzano: so che osservano ogni mio movimento ed ascoltano attentamente ogni mia parola, che mi stanno giudicando e che mi sto giocando parecchie delle mie possibilità in quei crucialissimi primi 50 minuti. Ma dopo pochi giorni, iniziano ad aprirsi un pochino. Imparo a vedere come scrivono, quali problemi hanno, quali timidezze li bloccano. Loro iniziano a scherzare e a lasciarmi entrare. Ed io entro. Con tutte le gambe e le braccia. Sempre attenta a non lasciarmi coinvolgere in questioni troppo personali, lascio tuttavia che si sfoghino con me nei diari che faccio loro scrivere come esercizio di composizione. Alcuni mi parlano dei loro appuntamenti, andati bene o male. Altri della loro missione in Italia. Altri di questioni private e familiari. Altri non mi danno molto spago, ma va bene così. Tutti mi permettono di entrare nel loro cuore e nel fantastico mondo della loro immaginazione, ricca, vivida, colorata. E io li amo, con tutto il cuore. Li amo al punto che lasciarli alla fine del semestre è difficile. Al punto che scoprire che un allievo imbroglia mi fa piangere per delle ore, ripercorrendo tutti i passaggi per vedere cosa avrei potuto fare per aiutarlo ed evitare la situzione. E al punto che ho un rispetto reverenziale per i loro saggi finali: li soppeso tra le mani e so di reggere le loro speranze, il lavoro di qualche mese, o a volte di qualche giorno, se non di qualche ora. Tuttavia, li rispetto. Perché anche se scritto in poche ore, in quelle ore il loro cervello e le loro facoltà sono interamente dedicate al saggio, al loro italiano, al mio lavoro, a me. I loro saggi sono il mio onore, anche se scritti male, anche con l'MLA a caso, anche con le preposizioni sparse. Non è facile essere studente, soprattutto se il tuo professore ti tratta da sottoposto, e non da eguale. Ma non è facile trovare il giusto equilibrio nel fare l'insegnante. Non lasciarsi coinvolgere così da diventare parziali, ma lasciarsi coinvolgere quel tanto che basta per voler loro bene. Non giustificare tutto, ma capire le circostanze. Non trattarli da amici, ma nemmeno da nemici. I miei studenti sono il mio lavoro, non l'italiano: quello è ciò che, limitatamente a quello che so, cerco di insegnare loro. Ma ogni semestre mi lascia più ricca, dell'italiano e dell'amore che io, ogni giorno, apprendo da loro.  

giovedì 26 gennaio 2012

Fumo di Londra

Oggi mio papà e mia mamma volano a Londra per una convention. Il che mi porta a riflettere sulle mie storie della buonanotte. Di solito ai bambini si legge una storia, o si racconta una classica fiaba (che poi quando diventi adulto scopri hanno contenuti sociologicamente e psicologicamente disturbanti): prendi Cappuccetto Rosso: una madre che manda la figlia da sola ad attraversare un bosco per portare due dolcetti alla nonna che sta male.. Ora, questa donna ha miseramente fallito da ben due punti di vista: come figlia, visto che tiene la madre novantenne e nemmeno in piena salute in mezzo ad un bosco da sola, senza nemmeno una badante di Paperopoli; come madre non mi sembra sveglissima, dato che manda la figlia da sola in mezzo ad un bosco... manca solo le auguri "in bocca al lupo" sulla porta...
Vogliamo parlare de "La Sirenetta"? Di recente mi sono riguardata i cartoni della mia infanzia per un progetto di ricerca, e mi sono seriamente preoccupata: quante tra le cose che ho ascoltato con le mie innocenti orecchie di bambina cicciosa sono penetrate ed hanno nidificato nel mio cervello? Insomma, la nemica della Sirenetta è una seppia cicciona, la cui filosofia è "agli uomini le chiacchiere non vanno, si annoiano a sentire bla bla bla; sulla Terra va così e le signore fanno in modo di imparare a stare zitte... ma avrai sempre il tuo aspetto, il tuo bel faccino, e non dimenticare il linguaggio del corpo!" COSA!?? Cenerentola? Davvero? Una che passa tutto il giorno a pulire e comunque si ritrova sempre piena di topi in giro? E li veste, pure. La bella addormentata? Cioè, una ha solo una cosa da fare nella vita: non toccare il dannato aggeggio per filare. Tra l'altro è talmente complicato che posso guardarlo e girarlo per tre giorni e ancora dovrei capire come cavolo funziona. Ti si dice, fai quello che ti pare, ma non toccare il fuso. Fatti tatuare tutte e due le chiappe, vai ad appiccare fuoco a un orfanotrofio, datti ad un corso di calligrafia, intreccia canestri, leggiti l'opera omnia di Camilleri, guarda le ottomila e quattrocento ventisei puntate di Quark sulla vita della savana, con la stessa coppia di leoni che si accoppiano in ogni puntata, fatti fare un massaggio, una lampada, una sauna, qualunque cosa, ma Non. Toccare. Il. Fuso. Ti abbiamo anche messo a guardia tre cretine che svolazzano e non sanno decidere tra rosa e blu! E tu cosa fai. Tocchi il fuso. Ovvio.
Biancaneve? Mi mette tristezza solo a pensarci. Passa da fare la donna di servizio per la regina, a fare la donna di servizio per sette uomini. Pazienza se sono nani: uno non sa infilare tre parole dritte, uno dorme in continuazione, uno si vede che non è molto a posto con la testa, uno starnutisce muco ovunque, uno che è troppo contento per non essere sotto l'effetto di qualche stupefacente, uno rimasto adolescente che se una donna gli dà un bacio diventa verde ed un bastian contrario.
Insomma, le fiabe classiche, tutto sommato, non sono una scelta azzeccata. E allora il mio papà, quando ero piccola, mi raccontava le sue storie. Erano due, e venivano sempre raccontate nello stesso modo. Una si chiama Papà a Londra. L'altra si chiama Papà a Parigi.
Papà non aveva mezzi, il lavoro che avrebbe potuto fare lo annoiava ed avviliva. Con pochi soldi e tanto coraggio, ha preso mille treni, da Venezia fino a Calais, in Francia; poi un traghetto fino a Dover; e ancora treni fino a Londra. Siamo alla fine degli anni 60. Gli inglesi non sono esattamente fan degli Italiani (credo non lo siano tuttora...), e ci sono tante porte sbattute in faccia, quando un ragazzino di diciassette anni chiede di lavorare. Poi lo trova: deve rifare le camere in un alberghetto in periferia. Il riscaldamento va a monetine, e lui ed il suo compagno hanno capito il trucco per inserire la monetina e tirarla fuori, per riuscire a scaldarsi. Papà va a scuola: scuola serale, naturalmente. Perché di giorno lavora. Fa tutti i mestieri che può fare chi non conosce la lingua: rifare letti, lavare piatti, tagliar patate. Poi la sera corre a scuola, perché vuole lavorare in posti migliori, e non può, se non impara l'inglese. E' dura, perché a Papà non piace tanto studiare. Ma ce la fa: impara meglio che può. E' dura anche perché a diciassette anni non sei mai uscito dal tuo paesotto, e la tua casa, la tua famiglia, la cucina della tua mamma ti mancano: non c'è Skype, roaming dati, bacheche di Facebook dove postare le tue notizie e sentire i tuoi cari. Ci sono solo lettere, lettere scritte da un padre che ha imparato a leggere e a scrivere da solo. Se poi gli inglesi decidono di scioperare e bloccare le poste per tre mesi, non ci sono neanche le lettere.
Poi torna in Italia, lavora l'estate, e riparte. Va a Parigi. Ci va con degli amici, ed uno si perde una valigia. A Parigi è ancora più dura. Lavora in un ristorante italiano, fa il cameriere. Ed i turni sono così terribili che ogni sera gli sanguinano i piedi. E ha fame, il mio Papà. Talmente tanta fame che quando lo mandano in ghiacciaia a prendere qualcosa, lui riesce a rubare un creme caramel, e a mangiarlo nascosto nel buio di un angolo. Anche qui, va a scuola. Sempre serale, s'intende. Tornato da scuola dovrebbe fare i compiti, ma non ce la fa, allora va a dormire puntandosi la sveglia alle cinque e ripromettendosi di farlo il giorno dopo, ma il giorno dopo non la sente, e allora di corsa a farli tra lavoro e scuola, e pregare che un avventore non entri nel ristorante ad un minuto dalla chiusura...
Sono passati più di quarantadue anni. Quello stesso ragazzo, adesso, dirige la portineria del più famoso hotel di Venezia. Ed oggi torna a Londra, ad una convention, accompagnato da sua moglie e da chissà quanti ricordi, più o meno dolorosi. Anche io a diciassette anni sono andata all'estero: in America, spesata e coccolata da amici, una camera tutta mia con vista sulla piscina, un college per stranieri e non un pensiero al mondo. E Papà mi scrisse una lunga lettera, mentre ero via. Iniziava raccontandomi di come anche lui a diciassette anni fosse andato lontano, ma con altre condizioni... mi raccontava che festa fossero le lettere di suo padre da casa... e anche se quando avevo io diciassette anni, c'erano già le mail e le telefonate oltreoceano, anche per me ricevere quella lettera ha significato il mondo.
Sono una figlia orgogliosa di suo padre.

sabato 12 novembre 2011

La Brunella definirebbe questo post "decisamente melò"


Perchè amo I miei Stati Uniti.

Non so se sia dappertutto così. Ne dubito. Questo paese è pieno di contraddizioni, e quello che io vedo ed amo, può essere incredibilmente antipatico ad altri. O può essere che abbiano visto gli USA con un altro cuore ed altri occhi. Non lo so: questi sono i miei.
Lasciatemeli amare.

Storia:
C’era una volta un uomo che stava seduto all’ingresso della città. Un giovane si avvicinò e domandò: “Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?”. L’uomo rispose con una domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”. “Egoisti e cattivi – disse il giovane – per questo sono stato contento di andarmene da là”. “Così sono gli abitanti di questa città”, gli rispose l’uomo. Poco dopo un altro giovane si avvicinò all’uomo e gli pose la stessa domanda: “Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?”. L’uomo rispose con le stesse parole: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”. “Erano buoni, generosi, ospitali, onesti – disse il giovane – avevo tanti amici ed ho fatto fatica a lasciarli”. “Anche gli abitanti di questa città sono così”, rispose l’uomo. Intanto un signore aveva sentito le conversazioni. Quando il secondo giovane si allontanò, si rivolse all’uomo, con tono di rimprovero: “Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?”. “Caro mio – rispose l’uomo – ciascuno porta il suo universo nel cuore. Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neppure qui. Al contrario, chi aveva degli amici nell’altra città, troverà anche qui degli amici leali e fedeli. Perché, vedi, le persone sono ciò che noi troviamo in esse”.

Questa storia racconta la verità. Ho faticato tanto a lasciare la mia terra, i miei amici, la vita che conoscevo. Non passa giorno senza che le loro parole risuonino nei miei ricordi.
Ma anche qui c’è tanto da amare.

Spesso, le persone che ti incrociano per strada ti abbagliano con un sorriso. Non le hai mai viste, ma sei sulla loro strada: ti sorridono e ti dicono ciao, perché, per un momento, siete uguali, amici, fratelli. E’ bello, e non manca mai di stupirmi.

Con la stessa naturalezza, ti fanno un complimento: il trucco, un capo d’abbigliamento, la manicure. Notano dettagli, ma non ti fissano.

Ho visto ragazzini, esclusi da una competizione, rimanere ed andarsi a sedere, con i loro costumi da ballo, tra il pubblico, a tifare per quelli che li avevano battuti. L’ho trovato quasi commovente, e molto sportivo.

Amo i miei professori. Amo il fatto che mi trattino come una loro pari, scherzino con me e siano sempre disponibili, ma che non abbandonino mai il loro ruolo di guide e di mentori.

Voglio bene agli studenti di italiano che vengono nel mio laboratorio di scrittura. Sono lusingata dalla loro fiducia nel credere ciecamente che la soluzione che suggerisco sia la migliore. Mi sento onorata nel poter insegnare la mia bella lingua. Mi manca tremendamente: credo che sia la cosa che mi manca in assoluto di più. I miei libri. La musicalità. Le mie virgole sparse come il parmigiano sulla pasta. I periodi lunghi e complessi, le subordinate e le coordinate. Ammiro questi ragazzi così giovani che scelgono di intricarsi nel labirinto che è la lingua italiana.
Ora stanno studiando, con impegno e costanza, Dante. Nello specifico, siamo arrivati alla parata finale del Purgatorio. Lo so, perché correggo io loro temi. Ogni parola mi fa pensare con nostalgia e gratitudine al mio professor Marcigliano.

Amo i colori dello Utah: sono splendidi. Tutto qui è tremendamente ordinato: perfino le foglie cadono nel modo giusto. Prima che l’autunno svanisca, una domenica, voglio andare nel cuore del Provo Canyon, con Ludovico Einaudi nell’iPod e le mie Scritture. Mi sdraio, respiro ed ascolto: il vento, il pianoforte, lo Spirito.

Da quando ho ripreso a studiare, tutto è diventato incredibilmente interessante. Mi sembra che ogni fatto, ogni minimo insignificante dettaglio, meriti il mio tempo, la mia attenzione, il mio studio. Nonostante abbia iniziato solo da tre mesi, sento già la nostalgia che mi assalirà quando finirò tra due anni. Sono proprio ridicola…

Amo la generosità di questa terra: amo la cortesia di chi lavora, che ti chiede sempre come stai e ti rivolge un sorriso.

La mia università è magnifica. Non è un aggettivo a caso, stai attento: lo è davvero. Imponente, ricca di ricordi e storia, prestigiosa e disponibile a darti tutto, dico tutto, quello di cui hai bisogno. Non esiste libro che la biblioteca non possa trovare, prodotto che il negozio non ti possa ordinare, classe che tu non possa frequentare: dal cucito all’archeologia, dal canto all’ingegneria meccanica, dal ballo alla geografia. Naturalmente, vorrei frequentarle tutte (ecco, forse ingegneria no…) e credo che, qualunque cosa farò nella mia vita, vorrò vivere l’età della pensione qui: a studiare.

Mi onora il fatto che la mia tesi potrebbe essere utile allo sviluppo della mia religione nel mio paese.

Amo vivere nella bolla Mormone. Amo avere fratelli e sorelle. Amo andare da Walmart e vedere che vendono quadri del Salvatore. Ogni giorno mi ricorda il giorno del mio battesimo: l’acqua fredda e l’emozione di entrarci. E l’immensa, vibrante, intensa gratitudine di essere riuscita a fare questa scelta.


Io so che sono qui per un motivo. Pur non essendo fatalista, e desiderando prendere le mie decisioni da sola, so che il Signore mi ha guidata qui. E mi sto godendo ogni istante. 

lunedì 17 ottobre 2011

Percezioni e pagliacci


Un paio di settimane fa, durante una lezione, il professore ha menzionato un concetto che mi gira in testa da un po’. La differenza tra concettualizzazione e percezione. Come da titolo, non è difficile capire le loro definizioni: percezione è l’atto del notare, superficialmente, un oggetto o un’azione: è ottobre, sto camminando, vedo un laghetto ed una papera e penso “toh, una papera”. Concettualizzazione è investirci un paio di neuroni: vedo la papera, è ottobre, e penso “toh, una papera. Che carina! Adesso mi avvicino per farle una foto… cacchio sta scappando… l’applicazione foto dell’iPhone ci sta mettendo una vita ad aprirsi… e la luce non è un granchè… ecco, fatta la foto… chissà dove vanno ‘ste papere in inverno, con tutta la neve e il freddo… magari se le cucinano alla Creamery… oppure le surgelano e le rimettono in libertà in primavera…” e si va avanti così, alla Molly Bloom, finchè non ti rendi conto che sei impalata come una scema sulla scala appena sotto il Brimhall Building, dove studi, e che dire “scusi, mi sono fermata a fotografare papere e ad interrogarmi sulla loro sorte” non funziona granchè come scusa per un ritardo.
Il professore ha accennato brevemente al fatto che, da bambini, la differenza tra i due non è particolarmente affinata: le sfumature, l’ironia, i piccoli dettagli si perdono nella valutazione che un bambino fa del mondo. Se un film è in bianco e nero, per il bambino in quell’epoca non esistevano i colori (un mio amico l’ha chiesto personalmente alla mamma) su tutta la faccia della terra. La spiegazione mi ha riportato alla mente le mie vicissitudini con il fantastico film It, per cui sarò eternamente debitrice a Stephen King (avete più di otto anni, quindi per favore cogliete la sfumatura ed il sarcasmo, grazie).
Tutto è cominciato quando, nel mio ottavo anno d’età, It ha fatto la sua comparsa nel palinsesto televisivo serale, quello di una volta, dove i film iniziavano alle 20.30 o alle 20.40. Mi ricordo ancora l’immagine di ‘sto pagliaccio abbarbicato ad un lampione, e mia mamma che passando cambiava canale: essendo la presentazione del film in piena fascia protetta, non c’erano scene spaventose, ma questo pagliaccio aveva un che di sinistro e già non mi piaceva. Fatto sta, che mi sono sentita sollevata la mattina in cui mi sono svegliata sapendo che l’intero film era stato trasmesso la sera prima, e che avrei potuto continuare a guardarmi David Gnomo in santa pace.
Non avevo fatto bene i miei conti. Viveva, nel palazzo dietro al mio, una ragazza di circa sei anni più vecchia di me e delle mie amichette. Giocava sempre con noi, e solo anni dopo mi resi conto che probabilmente la sua vita sociale non era proprio il massimo. Non ci tiranneggiava, almeno non sempre, ma immagino le piacesse avere uno stuolo di bimbette adoranti che avrebbero barattato il fratello minore per la sua cucina della Barbie.
Comunque, questa ragazza, evidentemente psicologa in erba, aveva deciso che il modo migliore per “svezzarci” sarebbe stato quello di farci vedere film dell’orrore: dopodichè nessuna avrebbe più avuto paura di niente ed avremmo potuto vivere una vita piena e ricca di serenità. Avendo io espresso la mia paura per It, ed essendo io una bambina già dotata della migliore delle fortune, l’esperimento sarebbe iniziato con me, la più giovane. Ora, siccome la mia mamma legge questo blog, voglio dire che avevo in parte accettato a mia volta di guardare il film, quindi non andare a cercare una mazza ferrata, grazie. Aggiungo anche però che già ai titoli di testa avevo deciso che era una pessima idea, ma non mi è stato permesso di filarmela, e quindi mi sono goduta una versione condensata delle scene più terrificanti di quel cretino di pagliaccio, che invece di starsene in forma di ragno nelle fogne, deve per forza combinarsi da clown ed andare in giro in una città dove l’evento dell’anno è la fiera del timballo di quaglia gobba e nessuno se lo fila, a parte sei adolescenti sfigatissimi, emarginati per i più disparati motivi. Per il discorso iniziale della percezione/concettualizzazione, nella mia testa di bambina, il dannato pagliaccio era realissimo, frequentava i tubi del mio bagno e non aspettava altro che saltare fuori per farsi un pranzo di Pasqua con le mie cicciottelle carni. Inoltre, non avendo seguito l’intero film secondo uno schema logico, con un inizio ed un termine, nella mia psiche la storia non si era conclusa con la vittoria dei sei sfigati, bensì It era vivo e vegeto e si sfregava le mani guantate sotto la mia doccia. Vi risparmio il dramma, mi basta dirvi che per diverso tempo, oserei dire almeno un tre anni, ogni sera andare a lavarmi era una tragedia, una complicata sequenza di trattative con i miei per cui dovevo essere accompagnata o avere la colonna sonora di Cristina D’Avena (all’epoca non mi rendevo conto che essere divorata da un pagliaccio da incubo sarebbe stato di lunga preferibile rispetto a lasciar entrare nella mia mente pronta all’adolescenza i testi delle canzoni di Cristinona).
La questione si è conclusa a quindici anni, quando un lungimirante morosetto, mi ha spinto a guardare tutto il film mentre mi teneva sollecito la mano, pronto a difendermi da mostri, ragni e clown (il moroso in questione era di svariati centimetri più basso di me, penso che un eventuale clown affamano l’avrebbe abbattuto con una singola alitata, ma a quindici anni sei scema e non ti rendi conto di simili quisquilie).
La storia, a mio eterno disdoro, non si conclude qui.
Era l’inverno dei miei diciannove anni. Per chi conosce la mia città natale, sa che in inverno si blocca un tantino, e che le opzioni di divertimento per chi non possiede un mezzo di trasporto variano da temprare le proprie vie respiratorie facendosi uscire la coca cola dal naso a rincitrullirsi di Soul Calibur. I miei amici, tutti maschi, avevano terminato il solito repertorio di attività spirituali quali dare fuoco alle proprie pernacchie ed evidentemente la Playstation si era suicidata, perché Gianfranco propose “Dai, guardiamo IT”. Vedendo la mia faccia, che evidentemente esprimeva tutta la mia letizia di fronte a tale entusiasmante progetto, mi chiesero se ci fosse qualche problema ed io, forte del mio essere donna adulta, responsabile, con un recentemente acquisito diploma al liceo classico ed un appartamento tutto mio a Trieste, scossi la testa con degnazione, affermando che assolutamente, che problema c’era ed io, paura? Ma va là, quei film là io li guardavo ad otto anni…
Guardiamo il film. Dico, sono quattro ore di film.
Bon, torno a casa, saranno state le tre del mattino, vado in bagno per la solita trafila togli lenti, togli trucco, crema, denti, lava il tutto a velocità fotonica e nel giro di 11, massimo 12 minuti ero a letto. Mi concentro su Babbo Natale, e mi addormento.
E sogno.
Sogno quel disgraziato che viene su dalla vasca da bagno, tutto contento, entra in camera mia, si avvicina e mi scosta le coperte facendole scivolare sul lato destro del letto, ed inizia, con tutta la calma del mondo, a mangiarmi, partendo dai piedi. (Commento simpatico di mio papà del giorno dopo, “arrivato alle ginocchia, sarà già stato a posto”). Nel sogno, io chiaramente esprimo la mia contrarietà allo spuntino con tutta la voce che ho, ma nessuno accorre in mio aiuto. Mi sveglio. Avete presente quando il corpo è talmente teso che i nervi, di solito di una gamba, scattano involontariamente? Beh, mi parte la gamba destra, calcio le coperte e quelle, per una malefica casualità mi scivolano giù sul lato destro del letto. Oh, come ho strillato! Talmente tanto che i miei sono arrivati tutti agitati, mia mamma che, per portarsi avanti, già piangeva per lo spavento. Balbettando sono riuscita a raccontare cosa mi turbava, e mia mamma si è offerta di farmi dormire con lei (evento senza precedenti), mentre papà, sfrattato e incredulo, continuava a ripetere “Giulia, hai una cosa come vent’anni!”.
Evidentemente nel mio processo di concettualizzazione, It resta ancorato alla percezione che ne ho fatto ad otto anni. Stupida percezione… 

giovedì 13 ottobre 2011

Inoltre...

A proposito... TANTI AUGURI AL MIO KIWI!!!

tecnologia e cucina


Non mi capacito del fatto che l’aggiornamento a IOS 5 che ho fatto sul mio iPhone abbia apparentemente cancellato l’applicazione dove avevo amorevolmente salvato le mie ricette. Mi rendo conto, scrivendo, che è parecchio inusuale mettere nella stessa frase termini tecnologici, da “geek”, e questioni donnesche. Ma io sono il mix dei due. Dammi una cucina e due ricette e sono felice. Dammi un divano, un libro, una wii, un computer o l’ultimo modello della casa del fu Jobs, e sono altrettanto felice. Sono due felicità differenti: la prima, fa più Nonna Papera e mi permette di nutrire gli affamati (che non sono quei due giunchi delle mie coinquiline, loro restano fedeli alla loro dieta di gallette di riso e broccoli, o UN singolo cracker spalmato di marmellata… anche io mangio un solo cracker spalmato di marmellata, basta non menzionare di quanti metri sia lo spessore della marmellata!), la seconda mi permette di acquisire nozioni e soddisfazioni.
Basta parlare di me.
Oggi ero nel laboratorio di scrittura di Italiano, dove lavoro come tutor, e mi è capitato di guardare lo scaffale dove sono custoditi (e giammai prestati) film italiani o in lingua italiana. Ho immaginato che, dato lo spessore culturale delle professoresse italiane che insegnano lì, i titoli più ricorrenti sarebbero stati “Amarcord” o “La dolce vita”, seguiti da vari film di altissimo livello culturale. Sbagliato. Subito dopo ogni film possibile con protagonisti “Peppone e Don Camillo”, seguono vari capolavori del genere e si termina col botto: una registrazione su videocassetta della finale Italia-Francia del 2006, la nostra ultima, gloriosa coppa del mondo. Ora, numero uno, voglio sapere chi è il genio che ha inserito quella cassetta tra le opere italiane: undici tizi in braghette corte che, quando cantano l’inno italiano, sembrano undici tizi in braghette corte che fumano la pipa sott’acqua. Numero due, voglio sapere chi, nel 2006, ancora registra su videocassetta. Numero tre, in quale cavolo di mondo il calcio è diventato una rappresentazione dell’Italia? Dico, non lo si poteva lasciare all’Inghilterra con gli Hooligans?! Stavamo tanto bene noi con gli spaghetti ed il mandolino. E ovviamente la mafia. E l’immancabile gesto con le dita raccolte, che noi utilizziamo raramente per chiedere “cosa vuoi”, ma che secondo gli americani noi usiamo quotidianamente per dire qualunque cosa. “Come stai? E a casa tutti bene?” Gesto. “Mi scusi, mi indica l’ubicazione dell’impianto di acque chiare e scure?” Gesto.
Come si fa a fare capire agli americani come stanno le cose in Italia senza offenderli o apparire snob? O peggio ancora, critica?
Il fatto è che io sono una purista: per quanto ami la pizza con il bacon, la salsa barbecue e l’ananas, non posso umanamente definirla “pizza”. Altrettanto vale per le lasagne con la ricotta. O la mozzarella ridotta ad un cubo con cui potresti attentare alla vita del tuo prossimo. O la carbonara con il petto di pollo.
Il fatto è che per loro questo è Italiano, e allora sai cosa ti dico? Va bene! Probabilmente il vero italiano a loro non piacerebbe. E se mai dovessi aprire un’attività nel campo della ristorazione, come praticamente tutti mi hanno prima o poi suggerito, anche io dovrei adattarmi alla domanda vigente e cucinargli il pesto con gli spinaci. Orrore.
Ma amo talmente tanto questo paese, che soprassederei.