domenica 13 aprile 2014

Da qualche tempo (leggi, anno) non scrivo e me ne rammarico. Tuttavia cose importanti sono accadute nella mia vita e oggi, domenica pomeriggio, mi ritrovo con qualche minuto a disposizione per chiacchierare.
Esiste una strana e fortunata dicotomia quando sei allo stesso tempo studentessa ed insegnante. Sto finendo il mio master, nel pieno della mia tesi, alle spalle due anni di lezioni e saggi, ed ho anche frequentato qualche classe di italiano (con relativi saggi). Sono anche stata assunta dal dipartimento di italiano per insegnare la classe di composizione avanzata. Ciò ha creato in me questa specie di doppia personalità, che si riassume nel perfetto nome che viene dato agli insegnanti non di ruolo, provvisori, che ancora frequentano l'università: student instructor.
In principio non mi garbava, o meglio, mi confondeva. Ero sì student instructor, ma tutti i miei colleghi, tranne forse un paio, frequentavano la mia classe. In più mi chiamavano professoressa. Pur essendo io laureata, e quindi dottoressa, il titolo perde di ogni valenza negli USA, poiché qui è dottore solo chi ha ottenuto un dottorato, il che ha senso. Insomma, quando la gente ti chiama professoressa la cosa ti dà alla testa per un pochino. Motivo per cui sono grata di essere, allo stesso tempo, studentessa. Perché quel "student" ha creato la perfetta ancora che mi ha tenuta con i piedi saldamente a terra, senza che mi montassi la testa.
Eppure succede. Succede perché chi mette passione nel proprio lavoro spesso risulta in un eccesso di zelo, che può rivelarsi, con il tempo, dannoso. Questo significa che ho avuto, ed a volte ancora ho, reazioni spropositate quando si parla dei miei studenti.
Reazione spropositata uno, è quella di prendere sul personalissimo un compito non consegnato o un suggerimento non eseguito: "Come si permette questo qui di non fare quello che ho detto io???" (leggere con il tono snob e antipatico della gente che usa frasi tipo "ma Lei lo sa chi sono io??") È un affronto. La reazione immediata: distruggere. Rendere inoffensivo. Non sei andato al writing lab a correggere il compito prima di consegnarlo? Bene, come punizione, scrivere alla lavagna 1000 volte la frase "Il writing lab è un'istituzione fondamentale nella struttura del dipartimento di italiano e senza Mariolina saremmo tutti nei guai". Non mi porti il compito in tempo? Come punizione per una settimana presentarsi alla segretaria del dipartimento alle cinque del mattino con un tema nuovo. (La segretaria non è felice, ma questi sono fatti tuoi, fa parte della punizione) Ti becco in castagna che non sai ancora la differenza tra un complemento predicativo ed uno indiretto? Legato per quindici ore consecutive senza pausa pipì ad ascoltare l'audiobook di Tantucci sull'Analisi Logica.
Poi ti blocchi e pensi: mmm, per tre mesi ho studiato le lezioni di etica della comunicazione dieci minuti prima di entrare in classe, pregando sempre di cavarmela. Ho rimandato la consegna del progetto IRB per tutto il semestre estivo perché ero impegnata con l'allora fidanzato. Ho spesso ignorato suggerimenti ed aiuti dai miei insegnanti. Stendiamo un velo pietosissimo sui miei voti di greco, latino e chimica del liceo. Voti bassi perché, dicevo, il prof era cattivo ed io non ero tra i suoi preferiti. Ora so che il prof non era il massimo, ma che se io avessi studiato sarei facilmente diventata una dei preferiti.
Insomma, l'essere studentessa mi ha tenuta salda a ricordare quanti errori ho fatto da studentessa, e cosa più importante di tutte, errori fatti NON per insubordinazione. Nella mia testa, la mia priorità era di riuscire a cavarmela senza troppi danni ma con meno impegno, di certo non ho mai mirato ad innervosire il professore. Anzi: la stima ed il rispetto che ho per molti dei miei insegnanti mi hanno fatta sentire in serio pericolo di deludere le loro aspettative su di me. E loro, da bravi insegnanti, non l'hanno presa sul personale.
La reazione spropositata numero 2 è che non mi aspettavo, nel modo più assoluto, di provare un sentimento così intenso e viscerale nei confronti dei miei allievi. Il primo giorno mi terrorizzano: so che osservano ogni mio movimento ed ascoltano attentamente ogni mia parola, che mi stanno giudicando e che mi sto giocando parecchie delle mie possibilità in quei crucialissimi primi 50 minuti. Ma dopo pochi giorni, iniziano ad aprirsi un pochino. Imparo a vedere come scrivono, quali problemi hanno, quali timidezze li bloccano. Loro iniziano a scherzare e a lasciarmi entrare. Ed io entro. Con tutte le gambe e le braccia. Sempre attenta a non lasciarmi coinvolgere in questioni troppo personali, lascio tuttavia che si sfoghino con me nei diari che faccio loro scrivere come esercizio di composizione. Alcuni mi parlano dei loro appuntamenti, andati bene o male. Altri della loro missione in Italia. Altri di questioni private e familiari. Altri non mi danno molto spago, ma va bene così. Tutti mi permettono di entrare nel loro cuore e nel fantastico mondo della loro immaginazione, ricca, vivida, colorata. E io li amo, con tutto il cuore. Li amo al punto che lasciarli alla fine del semestre è difficile. Al punto che scoprire che un allievo imbroglia mi fa piangere per delle ore, ripercorrendo tutti i passaggi per vedere cosa avrei potuto fare per aiutarlo ed evitare la situzione. E al punto che ho un rispetto reverenziale per i loro saggi finali: li soppeso tra le mani e so di reggere le loro speranze, il lavoro di qualche mese, o a volte di qualche giorno, se non di qualche ora. Tuttavia, li rispetto. Perché anche se scritto in poche ore, in quelle ore il loro cervello e le loro facoltà sono interamente dedicate al saggio, al loro italiano, al mio lavoro, a me. I loro saggi sono il mio onore, anche se scritti male, anche con l'MLA a caso, anche con le preposizioni sparse. Non è facile essere studente, soprattutto se il tuo professore ti tratta da sottoposto, e non da eguale. Ma non è facile trovare il giusto equilibrio nel fare l'insegnante. Non lasciarsi coinvolgere così da diventare parziali, ma lasciarsi coinvolgere quel tanto che basta per voler loro bene. Non giustificare tutto, ma capire le circostanze. Non trattarli da amici, ma nemmeno da nemici. I miei studenti sono il mio lavoro, non l'italiano: quello è ciò che, limitatamente a quello che so, cerco di insegnare loro. Ma ogni semestre mi lascia più ricca, dell'italiano e dell'amore che io, ogni giorno, apprendo da loro.  

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